nuova oggettività - oltre l’espressionismo, otto dix, george grosz, max beckmann
Tra il 1915 e il 1920 l’Espressionismo tedesco viene messo in discussione sia dagli artisti che dai critici d’arte, che lo accusano di non essere più in grado di rappresentare la vita e gli ideali della società tedesca contemporanea. Questa accusa si trova tanto nel manifesto dadaista del 1918 quanto nel saggio del 1920 di Wilhelm Hausenstein, che annuncia provocatoriamente la morte del movimento espressionista.
Il termine Neue Sachlichkeit, cioè Nuova Oggettività, viene utilizzato per la prima volta nel 1925, come titolo della mostra organizzata da Gustav Friedrich Hartlaub alla Kunsthalle di Mannheim.
Nello stesso anno lo storico dell’arte Franz Roh pubblica il libro Postimpressionismo. Realismo magico. Problemi della pittura europea più recente, in cui prende in esame le opere degli artisti che avevano esposto alla mostra e ne analizza stile e contenuti. Il comune denominatore del gruppo è la fedeltà alla pittura figurativa e un rapporto critico con la società tedesca, di cui denunciano le ipocrisie, la corruzione e i vizi.
Nelle dichiarazioni degli artisti del movimento della Nuova Oggettività si avverte il desiderio di non perdersi nei sogni, nei desideri o nelle illusioni legate sia a un nostalgico ritorno al passato, sia ai vaneggiamenti per un futuro migliore.
Al contrario, essi vogliono rimanere saldamente ancorati alla realtà presente, ai fatti, ai dati reali, alle cose, agli oggetti.
Già nel 1920 Max Beckmann scrive di non voler piangere su se stesso e sulla sua nazione, afferma che le lacrime gli sono odiose, simbolo di schiavitù. Al contrario egli pensa solo alle cose, a una oggettività trascendente, che nasce in lui dal suo profondo amore per la natura e gli uomini.
L’anno seguente George Grosz scrive che “l’oggettività e chiarezza del disegno ingegneristico sono un modello migliore che non l’essere loquaci senza controllo sulla cabala, la metafisica o l’estasi dei santi”.
Alcuni anni più tardi, nel dicembre del 1927, Otto Dix scrive un articolo sul Berliner Nachtausgabe, intitolato L’oggetto è il fatto primario, in cui ricorda e ribadisce la sua volontà di dedicare tutte le proprie attenzioni alla realtà.
La mostra di Mannheim, “dedicata a quegli artisti che sono rimasti o sono tornati fedeli alla realtà tangibile”, si svolge tra il giugno e il settembre del 1925: inizialmente voleva avere una partecipazione internazionale, poi, per vari motivi, vengono esposte centoventiquattro opere di artisti tedeschi, tra cui Max Beckmann, Otto Dix, Karl Hubbuch, Wilhelm Heise, Georg Scholz, Rudolf Schlichter e Georg Schrimpf.
Grosz espone sette opere, per lo più di ispirazione cubista-futurista, ma anche i suoi primi capolavori del nuovo stile realista, come l’impietoso Ritratto dello scrittore Max Herrmann-Neisse, con il personaggio quasi rattrappito sulla poltrona a fiori.
Tra i pittori presenti all’esposizione, Hartlaub distingue due correnti: una definita “di destra”, più classicista, cioè legata all’insegnamento dei maestri del passato, soprattutto all’arte rinascimentale italiana e comune a molti pittori attivi a Monaco; l’altra, “di sinistra”, più legata alla satira sociale e comune agli artisti di Berlino e Dresda, come Dix, Grosz, Scholz e Schlichter.
George Grosz, Ritratto dello scrittore Max Herrmann-Neisse, 1925
Otto Dix
Otto Dix nasce a Untermhaus, in Turingia, il 2 dicembre 1891. Dal 1909 al 1914 studia alla Scuola d’arti applicate di Dresda; nel 1913 visita l’Austria e l’Italia ed è influenzato dal Futurismo.
Dipinge paesaggi urbani industriali dai colori cupi e dai toni dimessi come si vede nell’olio Notte in città del 1913 o in Tramonto del sole in un paesaggio invernale, ispirato a Van Gogh.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, influenzato dalla lettura di Nietzsche, si arruola volontario, convinto di vivere un’esperienza entusiasmante e rigeneratrice, e si raffigura nell’Autoritratto da soldato del 1914, molto vicino allo stile espressionista.
In questo dipinto Dix usa colori violenti e pennellate energiche, decise: si raffigura con il cranio rasato, le mascelle serrate, gli occhi penetranti. La stessa firma, molto grande e squadrata, indica chiaramente il suo stato d’animo fiero e determinato.
Viene inserito in un’unità di artiglieria e combatte nelle Fiandre, in Polonia e in Russia. Questa esperienza lo scuote e lo turba profondamente, come testimoniano i disegni eseguiti in quegli anni di cui si serve per realizzare il ciclo di acqueforti La guerra, pubblicate nel 1924, dai toni esplicitamente antimilitaristi, con immagini di rara forza drammatica.
Nell’autunno del 1919 Dix diventa insegnante all’Accademia di Dresda e fonda la Dresden Secession Gruppe, insieme a Conrad Felixmüller e Lasar Segall, con i quali esegue dipinti vicini all’Espressionismo, tra cui Ragazza e morte e Testa d’uomo, dai colori vivaci e dalle linee esasperate.
L’anno successivo partecipa alla “Prima fiera internazionale dada” tenutasi a Berlino, anche se segue il Dadaismo solo per pochi mesi, prima di adottare uno stile realista, asciutto e incisivo, fortemente polemico verso i mali della società tedesca.
Lo si vede in Prager Strasse del 1920, i cui protagonisti sono due mutilati di guerra che chiedono l’elemosina in una delle vie principali di Berlino. Essi sono raffigurati in maniera cruda, quasi caricaturale, tanto da assomigliare e due grottesche marionette.
La critica sociale è evidente nel contrasto tra i due personaggi e i ricchi borghesi, di cui vediamo nel quadro solo pochi dettagli, due mani guantate o uno stivaletto dai tacchi alti.
In questa composizione l’artista adotta ancora alcuni elementi dello stile dada, come il collage impiegato per la raffigurazione della vetrina di apparecchi ortopedici sullo sfondo.
Molto simile è Il venditore di fiammiferi, sempre del 1920, il cui protagonista è un mutilato seduto su un marciapiede, completamente ignorato dai passanti di cui vediamo solo le gambe, sufficienti però per caratterizzarli nel loro stato di borghesi benestanti.
Otto Dix, Autoritratto da soldato, 1914[/size]
[size=7]Otto Dix, Prager Strasse, 1920
Nel 1926, Dix tiene una mostra personale a Berlino e dipinge alcuni dei suoi ritratti più importanti, come quello del fotografo Hugo Erfurth con il cane o quello della giornalista Sylvia von Harden, nota giornalista del “Berliner Tageblatt”.
Il pittore la conosce al Romanische Café, luogo di incontri artistici e letterari; la ritrae seduta al tavolino, su cui si trova un cocktail, un portasigarette e dei fiammiferi. Come tutte le intellettuali di quegli anni, la donna tenta di nascondere la propria femminilità e vuole assomigliare a un uomo: ha i capelli corti, come andava allora di moda, porta un monocolo e fuma ostentatamente una sigaretta.
Anche le sue mani grandi e la sua postura assomigliano a quelle di un uomo: l’unica concessione al suo sesso è il rossetto, che risalta sul pallore esangue del volto. Non indossa gioielli, eccetto un anello poco appariscente. Il vestito è semplice, quasi informe, a grandi quadri rossi e neri, e richiama i colori vividi del locale in cui si trova.
Un altro quadro famoso di Dix del 1926 è intitolato Tre donne, una parodia caricaturale del tema classico delle “Tre Grazie”.
Qui le tre donne nude sono diventate delle caricature grottesche e deformi, prive di ogni erotismo, disgustose e ripugnanti: una eccessivamente magra, quasi scheletrica; una obesa, con le vene varicose alle gambe; la terza flaccida e sformata.
Le “Tre Grazie” di Otto Dix hanno dipinte sul volto delle smorfie esagerate e si rivelano per quello che sono: tre prostitute da pochi soldi, che agli occhi dell’artista rappresentano la Germania di quegli anni, corrotta, priva di morale e di valori.
L’anno successivo Dix è nominato professore all’Accademia d’Arte di Dresda e nel 1931 è membro dell’Accademia prussiana delle arti di Berlino.
Tra il 1929 e il 1932 l’artista dipinge il Trittico della guerra, in cui esprime con crudo realismo tutto il suo orrore di fronte alle scene di morte e distruzione a cui ha assistito durante il primo conflitto.
Nel 1933 realizza I sette peccati capitali, una grande allegoria in cui impersonifica i vizi, con allusioni più o meno esplicite alla società tedesca del suo tempo.
La vecchina curva in primo piano raffigura l’avarizia. Sulle sue spalle vediamo un nano, simbolo dell’invidia (i baffetti simili a quelli di Hitler sono stati aggiunti dopo il 1945). La morte rappresenta l’accidia, il diavolo l’ira e la donna la lussuria. Sul fondo l’artista ha posto due maschere grottesche: la superbia, dal viso a forma di posteriore, e l’intemperanza, con un buffo e strano copricapo.
Sul muro in rovina si legge a fatica una frase dal libro di Nietzsche Così parlò Zarathustra: “Il deserto cresce, guai a chi salva il deserto”.
Nello stesso anno Otto Dix viene licenziato dalla sua cattedra all’Accademia d’Arte di Dresda, non può più esporre i suoi quadri in pubblico e deve riparare ad Hemmenhofen, sul lago di Costanza, dove si dedica ai paesaggi e ai temi religiosi, recuperando l’antica tradizione di Dürer e di Friedrich.
Muore a Singen il 25 luglio 1969.
Otto Dix, Sylvia von Harden, 1926
Otto Dix, Trittico della guerra, 1929-1932
Otto Dix, I sette peccati capitali, 1933
Tra il 1927 e il 1928 Otto Dix esegue uno dei suoi massimi capolavori: il trittico Metropoli (Metropolis, o anche Grande città).
In questo trittico, esposto per la prima volta nel 1928 alla mostra “Arte e tecnica” al Museo Folkwang di Essen, Dix raffigura con spietato sarcasmo i mali della società tedesca negli anni della repubblica di Weimar, in cui convivono il lusso più sfrenato e la miseria più nera.
La parte sinistra del trittico rappresenta un vicolo lastricato sotto un ponte ferroviario metallico, sotto il quale si trovano due reduci di guerra, uno ubriaco, l’altro mutilato. Quest’ultimo guarda con un misto di odio e di desiderio alcune prostitute che si avviano verso il bordello e che rivolgono loro solo gelide occhiate di disprezzo.
E’ evidente l’aperta polemica dell’artista verso una nazione in cui il vizio e la corruzione hanno la meglio sui sentimenti di solidarietà verso i più deboli, abbandonati e derisi.
Nel pannello centrale Dix ha raffigurato una festa danzante in un ricco cabaret di Dresda: una coppia di ballerini balla un charleston, seguendo le note di una jazz band, raffigurata a sinistra, mentre a destra altri ospiti osservano in silenzio, con un’espressione più annoiata che divertita.
Tutti ostentano il loro benessere, i gioielli preziosi e gli abiti eleganti, all’ultima moda.
Nella parte destra del trittico vediamo un gruppo di signore, quasi certamente prostitute d’alto bordo, insensibili di fronte a un mutilato di guerra che chiede l’elemosina.
A differenza del pannello sinistro, qui l’ambientazione è uno strano assemblaggio di elementi architettonici classici e barocchi, simili a quelli delle composizioni metafisiche di De Chirico.
Alcuni critici hanno voluto vedere nel particolare taglio verticale del vestito rosso, bordato di pelliccia, un esplicito riferimento sessuale. Le figure al centro del gruppo richiamano gli animatori dell’Eldorado, un noto locale di travestiti dell’epoca situato a Berlino.
Otto Dix, Metropoli, 1927-1928
Otto Dix, Metropoli (Pannello sinistro), 1927-1928
Otto Dix, Metropoli (Pannello centrale), 1927-1928
Otto Dix, Metropoli (pannello destro), 1927-1928
George Grosz
George Grosz nasce a Berlino il 26 luglio 1893, studia all’Accademia di Dresda, poi alla Scuola di Arti Decorative di Berlino. Nel 1914 si arruola volontario, ma poco dopo viene riformato in seguito a una malattia.
L’anno successivo esegue una cartella con quattro disegni intitolata Grande città, in cui il tema dominante è la vita frenetica delle moderne metropoli.
Tra il 1916 e il 1917 dipinge uno dei suoi primi capolavori: Metropolis (Berlino), un’opera pervasa da un senso di angoscia e da un’atmosfera apocalittica, sottolineata dai colori cupi e violenti che trasformano la scena in una drammatica processione infernale.
Lo stile di questo dipinto ricorda quello dei futuristi, ma mentre questi ultimi esaltano la vita dinamica e ogni forma di progresso tecnologico, Grosz giudica negativamente le folle che abitano i grandi centri urbani. A suo parere in essi l’individuo perde la propria identità e si trasforma in un ingranaggio al servizio dei poteri economici e politici.
Tra il 1917 e il 1918 dipinge Il funerale. Dedicato a Oskar Panizza, una grande tela che ricorda le opere di Bosch e Pieter Brueghel: un’allegoria dell’umanità impazzita e corrotta dal male, una visione grottesca e allucinata, un vortice dai toni cupi e vividi, in cui gli stessi edifici sembrano sul punto di crollare e travolgere la folla.
Al centro della composizione notiamo la bara, su cui siede uno scheletro ubriaco; sulla destra, un giovane vomita le illusioni della sua vita. In primo piano un prete solleva le braccia e tiene nella mano destra un crocifisso bianco, con cui tenta di placare i tre esseri mostruosi e deformi davanti a lui, simboli dell’alcolismo, della sifilide e della peste.
Oskar Panizza, a cui questo dipinto è dedicato, nasce nel 1853 a Bad Kissingen in Baviera. Nel 1880 si laurea in medicina. Pubblica vari volumi di poesie, audaci e irriverenti, a causa delle quali viene processato e imprigionato nel 1885 e nel 1901 e viene internato in diversi ospedali psichiatrici, fino alla morte nel 1921.
Quest’opera segna uno dei vertici del pessimismo e del sarcasmo di Grosz, che sfoga tutto il suo rancore contro la società borghese, colpevole ai suoi occhi di aver trascinato la Germania nella tragedia della guerra mondiale o quantomeno di non essere stata capace di impedirla.
George Grosz, Metropolis (Berlino), 1916-1917
George Grosz, Il funerale. Dedicato a Oskar Panizza, 1917-1918
Il 31 dicembre 1918 Grosz aderisce al partito comunista tedesco, di cui è membro fino al 1923.
Lavora per tre riviste satiriche, Die Pleite (Il fallimento), pubblicata dal 1919 al 1924, Der Gegner (1919-1924) e Der blutige Ernst (1919), collabora con l’editore Malik, per il quale pubblica molte cartelle di disegni satirici, e tiene la sua prima mostra personale presso la galleria Hans Goltz di Monaco: tutti esempi che mostrano il suo atteggiamento polemico e corrosivo nei confronti della società tedesca e insieme il suo stile, che fonde Futurismo, Cubismo ed Espressionismo.
Il disgusto di Grosz verso la borghesia corrotta si traduce in una serie di immagini che alludono al mondo notturno dei caffè, dei music-hall, dell’alcolismo e della prostituzione, dell’avidità e dello sfruttamento, sullo sfondo di una città fredda e impersonale.
Nel 1920 Grosz sposa Eva Peter e frequenta gli esponenti del movimento dada, con cui organizza mostre e altre manifestazioni. Tra i dipinti vicini allo stile dada troviamo Automi repubblicani e Methuselah.
Nel 1921 ritorna a uno stile realista, evidente nell’olio su tela intitolato Giorno grigio. Funzionario per l’assistenza ai colpiti dalla guerra, un’aperta denuncia contro lo sfruttamento dei reduci di guerra e nello stesso tempo contro l’egoismo e l’insensibilità della borghesia.
La parte centrale del dipinto è infatti occupata dal funzionario, dall’impeccabile doppiopetto nero e la camicia candida, che tiene stretta sotto il braccio una grossa borsa. Il suo volto sferico ha un’espressione avida, quasi animalesca, accentuata dagli occhi strabici, simbolo di chi non sa vedere nient’altro che il proprio tornaconto.
Alle sue spalle scorgiamo un mutilato di guerra, ancora in divisa, dal volto segnato più dalle umiliazioni che deve subire che dal dolore e dalla miseria in cui vive, e un operaio, visto come un automa senza volto.
George Grosz, Giorno grigio. Funzionario per l’assistenza ai colpiti dalla guerra, 1921
Tra le opere più importanti di Grosz realizzate tra il 1925 e il 1935 si trova Scena di strada, ambientata nel Kurfürstendamm, una delle vie principali di Berlino. Protagonisti di questa opera sono dei borghesi benestanti, dallo sguardo ottuso e inespressivo, specchio eloquente del loro egoismo e della loro indifferenza verso il venditore di fiammiferi, un mutilato di guerra raffigurato nell’angolo inferiore sinistro della tela.
L’anno successivo, nel 1926, compone I pilastri della società, un coraggioso atto di accusa contro chi dovrebbe sostenere la nazione e in realtà la distrugge a causa della propria inettitudine, vigliaccheria o avidità.
Il titolo si ispira all’omonima commedia di Henrik Ibsen: in primo piano si riconosce un avvocato militante del Corpsbruder, un’associazione corporativa filonazista, come si vede dalla svastica appuntata al nodo della cravatta. E’ senza orecchie e con il volto solcato da una cicatrice che si è procurato in un duello; con la mano sinistra tiene un boccale di birra e con la destra una spada, e dalla sua testa scoperchiata esce un soldato a cavallo, incarnazione dei suoi progetti bellicosi.
A sinistra c’è un giornalista che assomiglia ad Alfred Hugenberg, soprannominato “il ragno”: tra le mani tiene una matita, una lunga penna ed alcuni giornali, sporchi di sangue; in testa ha un vaso da notte, a simboleggiare la sua scarsa obiettività.
A destra un deputato socialista mostra lo slogan “Sozialismus ist Arbeit” (Il socialismo è lavoro), mentre dal suo capo, anch’esso “aperto”, esce una massa marrone fumante, non propriamente “cerebrale”. Sullo sfondo si scorgono alcuni militari e un palazzo in fiamme, simbolo della violenza delle repressioni naziste, mentre un sacerdote dà la sua benedizione con gli occhi chiusi, per non vedere quello che succede.
Una delle tipiche composizioni di Grosz fortemente critiche verso la società del suo tempo è Circe del 1927, in cui vediamo una coppia che si bacia, seduta al tavolino di un bar: lei è quasi completamente nuda, con un cappellino alla moda, una piccola stola di pelliccia al collo e una giarrettiera rossa; lui è il tipico borghese arricchito, il cui volto si allunga tanto da assomigliare a quello di un maiale.
Altrettanto significativo è Strada di Berlino del 1931, ambientato all’uscita di un elegante ristorante: in primo piano una coppia di ricchi borghesi rivela il proprio meschino egoismo e si dimostra insensibile nei confronti del mendicante che chiede loro l’elemosina, uno dei due milioni di veterani della Prima guerra mondiale e uno dei cinque milioni di disoccupati, vittime della crisi economica mondiale della fine degli anni venti.
Questa e altre opere di aperta denuncia sociale e di evidente impegno politico gli attirano la condanna da parte dei nazisti, che lo inseriscono nell’elenco degli artisti degenerati.
Nel 1933 Grosz deve rifugiarsi negli Stati Uniti: insegna all’Art Student League di New York e ottiene la cittadinanza statunitense.
Nel 1959, poco prima della morte, torna in Germania ed è nominato membro dell’Accademia di Belle Arti di Berlino, dove muore il 6 luglio.
George Grosz, Scena di strada, 1925
George Grosz, I pilastri della società, 1926
Max Beckmann
Max Beckmann nasce a Lipsia il 12 febbraio 1884. Studia all’Accademia di Weimar, allievo del ritrattista Carl F. Smith; viaggia a Parigi, Amsterdam, Ginevra e Berlino, dove frequenta gli ambienti della Secessione e dove tiene la sua prima mostra personale.
Nel 1906 sposa Minna Tube e realizza Grande scena di morte, un’opera drammatica nata in seguito alla morte della madre e stilisticamente affine alle opere di Edvard Munch. Nello stesso anno dipinge una crocifissione intitolata Dramma e Giovani al mare, una grande composizione di stile ancora accademico, esposta con successo alla mostra del Deutscher Künstlerbund di Weimar.
Nel 1913 tiene una mostra presso la galleria berlinese di Paul Cassirer ed esegue numerosi dipinti a soggetto storico, religioso o legato ad avvenimenti di attualità, come il terremoto di Messina o l’affondamento del Titanic.
L’anno seguente si arruola volontario come infermiere; viene inviato nella Prussia orientale, poi nelle Fiandre, dove conosce Heckel, ma viene congedato l’anno seguente per un forte esaurimento nervoso.
Dal 1915 si separa dalla moglie e insegna alla Scuola di Belle Arti di Francoforte.
Come si può vedere nell’Autoritratto con fazzoletto rosso del 1917, Beckmann si raffigura come un artista tormentato, alla ricerca di un equilibrio interiore e di solide certezze, che non riesce a trovare né dentro di sé, né nella società in cui vive. Nello stesso anno esegue una sofferta Deposizione, che ricorda i capolavori dei maestri del Rinascimento tedesco e si caratterizza per un disegno spigoloso ed essenziale, privo di abbellimenti e decorazioni.
Nelle opere degli anni successivi dedica maggiore attenzione al disegno, alla disposizione delle masse, anche se la maggior parte delle scene raffigurate è pervasa da un senso opprimente di solitudine, angoscia e disperazione, come si può vedere in La sinagoga del 1919, Carnevale del 1920 e Prima del ballo in maschera del 1922.
Altrettanto significativa è la tela del 1921, Autoritratto nei panni di un clown, uno dei numerosi autoritratti che l’artista ha eseguito nella sua carriera. In questa tela Beckmann guarda alla realtà in maniera oggettiva e disincantata: non fa nulla per abbellirsi o per rendersi più simpatico e accattivante. Al contrario, manifesta apertamente la crisi esistenziale che lo affligge, i sentimenti di frustrazione, insoddisfazione e autocommiserazione che tormentano il suo animo sensibile. La prospettiva stravolta con cui il pittore disegna la stanza, che ricorda lo stile degli interni di Van Gogh, testimonia questo stato d’animo dimesso e sconsolato.
L’artista, che noi vediamo in questo dipinto vittima di una profonda afflizione morale, sembra aver perso ogni speranza e illusione, e protende il braccio destro in segno di resa. Si raffigura nei panni spenti di un clown, incapace perfino di svolgere il suo lavoro, ciò di far ridere la gente.
Max Beckmann, Autoritratto con fazzoletto rosso, 1917
Max Beckmann, Autoritratto nei panni di un clown, 1921
Tra il 1918 e il 1919 Max Beckmann dipinge La notte.
Questo dipinto può essere letto come un’allegoria del male e della violenza a cui l’artista ha assistito personalmente durante la Prima guerra mondiale e che lo ha profondamente sconvolto, tanto da provocargli un grave esaurimento nervoso.
La scena narrata è ispirata a un fatto di cronaca nera realmente avvenuto: la quiete domestica di una famiglia, che si appresta a cenare, viene interrotta da criminali, che rubano, torturano e uccidono.
Il dipinto è caratterizzato da un realismo crudo e immediato, reso per mezzo di un disegno nervoso e nello stesso tempo minuzioso nel descrivere i minimi dettagli anatomici e nel rendere le espressioni dei singoli personaggi, esasperate e perfino grottesche.
La drammaticità della scena è accentuata dall’affollamento dei personaggi in uno spazio che sembra molto stretto o addirittura deformato, come se lo spettatore lo vedesse attraverso una lente o in un incubo. Anche i colori vividi e freddi, dalle sfumature opache, contribuiscono a creare un’atmosfera plumbea e macabra, tale da incutere un senso di disagio e di angoscia.
In questa tela Beckmann sviluppa e approfondisce un tema che aveva già trattato in una sua acquaforte del 1914: ci presenta un’umanità impazzita e abbrutita dall’odio, che infierisce sui deboli con gusto sadico, del tutto gratuito.
La notte cui fa riferimento il titolo non è reale ma spirituale e indica la totale assenza di valori e di ideali, che trasforma gli esseri umani in belve spietate, pronte a qualunque azione malvagia, per la bramosia di possesso, e perfino al male fine a se stesso.
La struttura compositiva assomiglia alle scene di martirio della pittura antica, ma mentre in queste il male e il dolore vengono vinti o almeno attenuati dalla fede in Dio, qui il pittore ci mostra una visione totalmente pessimistica della vita, senza vie di scampo e soprattutto senza senso e senza alcuna possibilità di redenzione.
Max Beckmann, La notte, 1918-1919
Pur essendo presente con cinque opere alla mostra della Nuova Oggettività di Mannheim, Beckmann segue un proprio stile personale, non sempre vicino alle tematiche realiste: negli anni venti si dedica ai temi religiosi e mitologici, svolti più in chiave intimista e soggettiva; anche nei ritratti e negli autoritratti indulge nell’introspezione psicologica e solo in alcune scene a contenuto sociale e politico rivela un’indole satirica e moralistica.
Nel 1925 divorzia e sposa Mathilde von Kaulbach, figlia del pittore Friedrich August von Kaulbach, soprannominata Quappi.
Tra i molti ritratti che il pittore le dedica, il più affascinante è senza dubbio Quappi in rosa: la vediamo seduta su una poltrona, con un elegante abito rosa chiaro, una lunga collana a più giri e la sigaretta nella mano destra che va letta come il simbolo della sua indipendenza femminile. Lo sguardo attento e concentrato della donna, una brava musicista, non è direttamente rivolto verso lo spettatore, ma alla propria sinistra, dove si trova probabilmente un interlocutore a noi invisibile che le sta rivolgendo la parola.
Un altro dettaglio che colpisce in questo ritratto sono le mani dalle dita lunghe e affusolate, che ricordano le Madonne rinascimentali e contribuiscono a dare alla moglie dell’artista un’immagine nobile e austera.
Sempre nel 1925 Beckmann ottiene una cattedra allo Städelsches Kunstinstitut di Francoforte; l’anno successivo espone per la prima volta negli Stati Uniti.
A partire dal 1928 il suo disegno diventa ancor più preciso e minuzioso, arricchito da una maggior varietà cromatica, come si può vedere in alcune composizioni di quegli anni, a partire da Zingara, del 1928, dal trittico Partenza, del 1932-1933, o da Ricevimento a Parigi del 1931.
Quest’ultimo è uno degli esempi migliori del modo in cui l’artista osserva e critica la borghesia tedesca di quegli anni, anche se lo fa in maniera meno aspra e corrosiva rispetto alle opere coeve di Dix o Grosz. La tela ci mostra un elegante ricevimento all’ambasciata tedesca a Parigi. Grazie alle indicazioni fornite dalla moglie di Beckmann alcuni dei personaggi raffigurati sono stati identificati: al centro il principe Karl Anton Rohan; all’estrema destra il banchiere di Francoforte Albert Hahn; seduto a sinistra il critico musicale Paul Hirsch; seduto in basso a destra, con le mani sulla testa, l’ambasciatore tedesco Leopold von Hoesch; infine l’uomo in piedi a sinistra è quasi sicuramente il sarto parigino Paul Poiret.
Quello che colpisce di questo quadro è il fatto che nonostante sia un’occasione mondana, nessuno dei presenti sembra divertirsi: tutti hanno un’espressione seria, triste, come se fossero oppressi da preoccupanti angosce, tanto che alcuni critici hanno voluto vedere in questa scena una specie di veglia funebre sulla democrazia in Germania alla vigilia del Terzo Reich.
Nel 1933, a causa del suo atteggiamento considerato negativo e disfattista, Beckmann viene licenziato e inserito nell’elenco dei pittori degenerati; nel 1937 è costretto a lasciare la Germania. Vive a Londra, Parigi, e Amsterdam, dove espone con successo le sue nuove opere.
Nel 1938, ad Amsterdam, dipinge uno dei suoi molti autoritratti, intitolato Autoritratto con corno. Il pittore si raffigura con un corno nella mano sinistra, simbolo dell’arte romantica tedesca, con cui esprime la sua nostalgia per la patria perduta.
Nel 1947 si reca negli Stati Uniti, dove insegna ed è protagonista di numerose mostre monografiche.
Muore a New York il 27 dicembre 1950.
Max Beckmann, Quappi in rosa, 1932-1934
Max Beckmann, Ricevimento a Parigi, 1931
Max Beckmann, Autoritratto con corno, 1938
Epilogo
Fin dai primi anni della sua carriera politica Hitler guarda con sospetto e diffidenza l’attività degli artisti d’avanguardia tedeschi. Ai suoi occhi essi sono lontani, se non addirittura su una lunghezza d’onda antitetica alle sue idee.
Egli li considera nemici della grande Germania che intende costruire, li ritiene dei disfattisti, degli ostacoli, dei sabotatori, dei nemici da far tacere il prima possibile.
Una volta preso il potere, nel 1933, attua una rigorosa e sistematica politica di controllo e di repressione: tutti gli uomini di cultura, pensatori, giornalisti, insegnanti, letterati e artisti di ogni disciplina devono piegarsi alle direttive del regime; chi non accetta deve cercare rifugio all’estero o è costretto al silenzio, perché non può esporre in pubblico le proprie opere e perde ogni incarico nelle scuole e nei musei.
Nel 1937, nel corso di una delle tante manifestazioni pubbliche, Hitler tiene un discorso in cui conferma la sua volontà di “ripulire” tutti i settori della cultura e di distruggere senza pietà le opere di coloro che non hanno voluto adeguarsi ai suoi ordini.
A partire da quell’anno gli ispettori della Gestapo ispezionano gli studi, le abitazioni e perfino le cantine degli artisti più irriducibili, per evitare che continuino in privato il loro lavoro. Proprio per questo Emil Nolde smette del tutto di produrre oli su tela, per dedicarsi esclusivamente a piccoli acquerelli, facilmente occultabili in caso di ispezione.
Circa sedicimila opere vengono “epurate” dai musei pubblici, vendute all’estero o addirittura bruciate nel corso di manifestazioni propagandistiche, come quella tenutasi nel cortile della caserma dei pompieri di Berlino nel 1939, durante la quale vengono distrutti oltre mille dipinti e circa quattromila tra acquerelli e disegni requisiti dalla Gestapo da gallerie e abitazioni private.
Lo stesso anno, nell’Haus der Kunst di Berlino, viene organizzata una rassegna delle opere d’arte gradite al regime e al Führer; contemporaneamente, a Monaco, si apre una mostra con seicentocinquanta opere di centododici artisti chiamata Entartete Kunst, ovvero “Arte degenerata”. Lo scopo è quello di deridere e umiliare questi pittori ribelli, non allineati con la cultura ufficiale. Il pubblico premia invece le opere degli “artisti degenerati”, ammirati da oltre un milione e duecentomila visitatori.
George Grosz, Siegfried Hitler, 1923